Lingua o dialetto?
Si legge e si sente spesso parlare di “lingua arbëreshe” quasi come se fra gli Albanesi d’Italia fosse in uso un codice linguistico unico ed unitario, comune a tutte le circa cinquanta comunità albanofone con una sua specificità ed un suo status normativo.
Gli Italoalbanesi, invece, non hanno e né tanto meno usano un codice linguistico omogeneo quindi, piuttosto che definire l’arbërishtja una “lingua”, è più giusto che la si indichi, sia ai fini pratici che teorici, come una varietà linguistica dialettale alloglotta, storicamente sedimentata in territorio italiano a partire dal XV secolo circa e, più precisamente, con una sua origine nel ramo dialettale tosco parlato nell’Albania meridionale e, in parte, nelle comunità albanofone arvanite della Grecia.
Si è di fronte ad un variegato numero di parlate, tante quante sono le comunità, alcune strutturalmente più simili, 48 ed altre più diverse al punto da non essere reciprocamente comprensibili anche se il lessico di base, più omogeneo ed uniforme, può permettere un certo livello di intercomprensione anche fra i parlanti geograficamente più distanti.
Tuttavia i parlanti arbëreshë appartenenti ad aree dialettali diverse con molta difficoltà riescono a sostenere una conversazione od affrontare determinati argomenti in arbërisht, così come chiamano il loro dialetto, preferendo per comodità e semplicità ricorrere all’italiano; tale consuetudine è peraltro normale anche fra i parlanti di una medesima comunità quando si trovano a dover trattare argomenti più specifici diversi da quelli inerenti la vita familiare ed i bisogni quotidiani.
Come si vedrà, le parlate albanesi d’Italia, pur provenendo da un unico ceppo dialettale, sono fortemente divergenti.
Sicuramente tale divergenza è una conseguenza dell’evoluzione che esse hanno subito in terra italiana come risultato dei rapporti continuativi con i dialetti romanzi e con l’italiano regionale ma, come afferma giustamente Çabej (1975), è probabile che sin dall’inizio siano esistite evidenti differenze linguistiche fra i gruppi di profughi che hanno dato origine alle comunità della diaspora italiana per cui l’arbërishtja è il naturale risultato congiunto di due fattori, “tradizione ed innovazione”, che hanno operato nell’arco di cinque secoli.
Uno dei segnali distintivi di questa divergenza originaria, secondo Hamp (2000, dati personali) è, per esempio, il diverso esito nella terza persona singolare del verbo essere është “è”, che appare come isht nelle aree dialettali periferiche isht nelle aree dialettali periferiche isht del Molise, della Puglia, della Campania, della Basilicata settentrionale ed in Sicilia (tratto condiviso anche con Mandritsa in Bulgaria e Màndres in Grecia) che ricondurrebbe la provenienza di queste popolazioni alle comunità arvanite della Morea (Peloponneso), mentre nelle restanti aree della Basilicata meridionale e della Calabria esso mantiene la forma (con diverse sfumature di pronuncia) ësht(ë); accanto a questo interessante indicatore sarà bene ricordare anche la partecipazione di altri fenomeni nel campo della fonetica, della morfologia, della sintassi e del lessico che contribuiscono a definire con ulteriore precisione la “lingua” del popolo italoalbanese.
TRATTO DA: Studio antropologico della comunità arbëreshe della provincia di Torino a cura di Antonio Tagarelli.